Con l’ordinanza n. 9225 del 18 novembre 2024, il Consiglio di Stato, Sezione II, ha deferito all’Adunanza Plenaria la risoluzione di una questione di particolare rilevanza interpretativa in relazione al termine di deposito della sentenza di primo grado previsto dall’art. 94 del codice del processo amministrativo (c.p.a.), che stabilisce l’obbligo di deposito entro trenta giorni dall’ultima notificazione della sentenza. Il quesito sottoposto riguarda se tale obbligo di deposito debba essere considerato come un onere previsto a pena di decadenza, e quindi con la conseguenza che, in caso di mancato rispetto del termine, l’appello debba essere dichiarato inammissibile, o se la norma debba essere interpretata in modo da consentire una maggiore flessibilità, tenendo conto dei principi costituzionali di ragionevolezza, accesso alla giustizia e tutela dei diritti di azione e difesa. In quest’ottica, la questione riguarda la possibilità che il deposito tardivo della sentenza o la trasmissione del fascicolo di primo grado (anche tramite accesso diretto da parte del giudice di appello) possa sanare il difetto di deposito nei tempi prescritti.

La norma in esame, nell’impostazione tradizionale, è interpretata come vincolante e soggetta a un regime di decadenza, con la conseguenza che, nel caso di mancato rispetto del termine di deposito della sentenza, il giudice di appello non sarebbe in grado di esaminare l’impugnazione e l’appello stesso risulterebbe inammissibile. Tuttavia, tale rigore potrebbe essere messo in discussione alla luce dei principi costituzionali, che pongono al centro la tutela dei diritti delle parti, tra cui il diritto di accesso alla giustizia e il principio di ragionevolezza, evitando che un semplice adempimento formale precluda la possibilità di una decisione di merito.

L’Adunanza Plenaria dovrà valutare se l’obbligo di deposito della sentenza di primo grado possa essere qualificato come una mera formalità, suscettibile di essere sanata in caso di ritardo, oppure se tale onere debba effettivamente essere inteso come essenziale ai fini dell’ammissibilità dell’appello. La risoluzione di questa questione avrà implicazioni significative sulla gestione dei processi amministrativi, in particolare in relazione al rispetto dei tempi processuali e all’effettività del diritto di difesa, nonché sul ruolo del giudice di appello, che potrebbe essere autorizzato ad intervenire attraverso strumenti più flessibili, come la possibilità di accedere direttamente agli atti del primo grado, pur in assenza di un deposito formale nei termini previsti dalla norma.

Pubblicato il 18/11/2024

  1. 09225/2024 REG.PROV.COLL.
  2. 04602/2023 REG.RIC.           

REPUBBLICA ITALIANA

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

ORDINANZA DI RIMESSIONE ALL’ADUNANZA PLENARIA

sul ricorso numero di registro generale 4602 del 2023, proposto dal comune di Canosa di Puglia, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe Limongelli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

– OMISSIS -, rappresentato e difeso dagli avvocati Gennaro Cefola e Maria Paola Cefola, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione II, 15 novembre 2022, n. – OMISSIS -, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di – OMISSIS -;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 5 novembre 2024 il consigliere Alessandro Enrico Basilico, udito per l’appellante l’avvocato Giuseppe Limongelli e viste le conclusioni scritte dell’appellato.

  1. Il comune di Canosa di Puglia impugna la sentenza che ha accolto il ricorso proposto dal signor – OMISSIS – per l’annullamento dell’ingiunzione di demolizione emessa nei suoi confronti a cagione dell’installazione di una vetrata mobile scorrevole su una parte del perimetro di una pergotenda già autorizzata, mediante la quale avrebbe ottenuto, secondo l’amministrazione, la chiusura della superficie e la creazione di una nuova volumetria non assentita.
  2. I fatti di causa rilevanti, quali emergono dalle affermazioni delle parti non specificamente contestate e comunque dagli atti e documenti del giudizio, possono essere sinteticamente ricostruiti nei termini seguenti.

2.1. L’appellato è proprietario di un compendio immobiliare nel comune di Canosa di Puglia destinato a ristorante e pizzeria.

Come risulta dall’accertamento svolto da funzionari della Polizia locale e dell’ufficio tecnico il 26 ottobre 2021 (doc. 1 depositato in primo grado dal comune), il compendio consiste di un’area «completamente recintata, pavimentata e sistemata anche a verde, […] sulla quale sono presenti dei manufatti/costruzioni utilizzati a cucina, servizi igienici e spazi per la ristorazione allo scoperto ed al coperto».

2.2. Con permesso di costruire n. 13 del 18 giugno 2020, l’appellato è stato autorizzato a installare nell’area scoperta dell’immobile una pergotenda di 18,50 x 8,50 metri, con altezza media di 3 metri.

2.3. All’esito del sopralluogo tenutosi il 26 ottobre 2021 si è rilevata la presenza di un fabbricato in muratura con adiacente forno prefabbricato e pensilina metallica, a sua volta collegata a «una pergotenda a struttura portante metallica (alluminio) e copertura apribile costituita da un telo impermeabile delle dimensioni di m. 18,50 x 8,50 circa allocata su un’area pavimentata posta su due lati in adiacenza con il confine con le aree di pertinenza di fabbricati di proprietà di terzi» e, su una parte del perimetro della pergotenda, «la installazione di vetrate mobili scorrevoli su binari, prive di intelaiatura», oltre a una piscina e a tavoli, sedie e giochi per bambini (si veda il relativo verbale, depositato in primo grado dalla difesa dell’ente quale doc. 1).

2.4. Con ingiunzione n. 52 del 7 giugno 2022 (prot. 18303), emessa ai sensi dell’art. 31 del t.u. edilizia (approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380), il comune ha ordinato all’appellato, quale proprietario, committente e responsabile dell’abuso edilizio, la demolizione o rimozione della «installazione su una parte del perimetro della pergotenda autorizzata con il Permesso di Costruire n. 13/2020 di una vetrata mobile scorrevole su binari», la quale, comportando la chiusura della superficie interessata dalla pergotenda, concretizzerebbe una nuova volumetria realizzata in assenza del necessario titolo edilizio.

  1. L’interessato ha impugnato il provvedimento dinanzi al T.a.r. della Puglia, chiedendone l’annullamento.

3.1. Il ricorso si fondava su un unico motivo, con il quale è stata dedotta: «VIOLAZIONE DI LEGGE ED ECCESSO DI POTERE – VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 97 COST. – VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL’ART. 1 L. 241/1990 – VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 6, 10 E 31 DEL D.P.R. 380/2001 – TRAVISAMENTO DEI PRESUPPOSTI DI FATTO E DIRITTO – DIFETTO DI ISTRUTTORIA – ILLOGICITÀ E CONTRADDITTORIETÀ».

In particolare, si è contestata la tesi del comune secondo cui si sarebbe creata una nuova volumetria, osservando che «le caratteristiche tipologiche e strutturali della vetrata non consentono la configurazione di una chiusura stabile della superficie interessata dalla pergotenda», in ragione dell’«assenza di elementi di fissità, stabilità e permanenza» (pp. 3 e 4 del ricorso).

3.2. Con sentenza 15 novembre 2022, n. – OMISSIS -, il T.a.r. ha accolto il ricorso, annullando l’ingiunzione di demolizione n. 52 del 2022 e compensando tra le parti le spese di lite.

In particolare, il Tribunale ha ritenuto dirimente il fatto che «la vetrata in questione, in quanto scorrevole su binari ed installata solo per un lato della pergotenda, non conduce ad una chiusura permanente dell’area da essa interessata, che resta immutata nei suoi tratti essenziali (in particolare sagoma, superficie utile a fini commerciali, volume), né tantomeno ne comporta una indebita estensione o un incremento [e] non conduce a una diversa ed ulteriore utilizzazione dell’area interessata dalla pergotenda, già destinata alla ristorazione».

  1. Il Comune ha impugnato la sentenza con appello notificato via p.e.c. il 9 maggio 2023 e depositato il successivo 29 maggio.

4.1. Il gravame si fonda su un unico motivo (esteso da pagina 3 a pagina 5 del ricorso), con cui si deduce: «CONTRADDITTORIETA’ E MANCATA APPLICAZIONE DEL DIRITTO nella parte in cui Il Tribunale afferma: “….Considerato che, anche in base ai recenti arresti della giurisprudenza amministrativa (cfr. Tar Liguria, sentenza n.408 del 5 maggio 2021) è la chiusura su tutti i lati, nel caso di specie non sussistente, l’aspetto fattuale decisivo per far ritenere realizzata la creazione di un nuovo volume….”».

In particolare, si sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, l’installazione della vetrata abbia comportato una chiusura totale dello spazio coperto dalla pergotenda, perché ha riguardato l’unico lato aperto della struttura, che per il resto era già delimitata da muri su tre lati, e che per questo sarebbe stato necessario il permesso di costruire, in assenza del quale l’opera deve essere rimossa.

4.2. Nel giudizio di secondo grado si è costituito l’appellato, chiedendo il rigetto del gravame.

4.3. Il 9 maggio 2024 il comune ha depositato l’istanza di fissazione dell’udienza pubblica per la discussione della causa.

4.4. Con ordinanza 8 maggio 2024, n. 1675, emessa all’esito della camera di consiglio fissata per l’esame dell’incidente cautelare, il collegio, oltre a respingere la domanda cautelare perché l’appellante «non ha allegato né comunque provato di poter subire un pregiudizio grave e irreparabile nelle more del giudizio», ha fissato l’udienza pubblica per la trattazione del merito, invitando sin da allora le parti «a contraddire sulla questione, che il collegio rileva d’ufficio, della possibile inammissibilità del gravame per omesso deposito di copia della sentenza impugnata, come prescritto dall’art. 95 [rectius, 94] cod. proc. amm.».

4.5. Il 16 maggio 2024 il Comune ha depositato una copia della sentenza di primo grado, con attestazione di conformità all’originale.

4.6. Nel prosieguo del giudizio l’appellato ha depositato una memoria difensiva, insistendo per la dichiarazione d’inammissibilità dell’appello o comunque per il suo rigetto nel merito.

4.7. All’udienza pubblica del 5 novembre 2024 la causa è stata trattenuta in decisione.

  1. In via preliminare rispetto allo scrutinio dell’unico motivo di appello, è necessario valutare la questione pregiudiziale, che il collegio ha sollevato d’ufficio e sottoposto al contraddittorio tra le parti, dell’inammissibilità del gravame per omesso tempestivo deposito della sentenza di primo grado, in considerazione del fatto che l’art. 276, comma 2, c.p.c. , cui rinvia l’art. 76, comma 4, c.p.a., impone di risolvere le questioni processuali e di merito secondo l’ordine logico loro proprio, assumendo come prioritaria la definizione di quelle di rito rispetto a quelle di merito, secondo una scansione che non rientra nella disponibilità delle parti e non subisce eccezioni (come affermato dall’Adunanza plenaria, n. 5 del 2015).
  2. A tal proposito, viene in rilievo l’art. 94 c.p.a. il quale dispone che «nei giudizi di appello, di revocazione e di opposizione di terzo il ricorso deve essere depositato nella segreteria del giudice adito, a pena di decadenza, entro trenta giorni dall’ultima notificazione ai sensi dell’articolo 45, unitamente ad una copia della sentenza impugnata e alla prova delle eseguite notificazioni».
  3. Secondo l’interpretazione tradizionale, per lungo tempo pressoché unanime, l’onere stabilito dall’art. 94 c.p.a. di deposito della copia – anche non autentica – della decisione impugnata entro il termine di trenta giorni dall’ultima notificazione dell’appello è da intendersi a pena di decadenza in quanto «funzionale a garantire esigenze di ordine pubblico processuale, indisponibili per le parti private, strumentali al regolare svolgimento del giudizio», rispetto alle quali l’adempimento in questione si configura come un corollario dei «canoni di canoni di chiarezza, sinteticità, leale collaborazione, che non sono mere enunciazioni di principio o puri esercizi cartolari, ma il contenuto di puntuali doveri delle parti» (da ultimo Cons. Stato, sez. V, 5 aprile 2024, n. 3154; negli stessi termini, tra le tante: C.g.a., sez. giur., 23 gennaio 2023, n. 86, e 22 settembre 2022, n. 956, le quali aggiungono che la disposizione «continua ad essere vigente anche in regime di processo amministrativo telematico, e impone un adempimento che non può ritenersi caduto in desuetudine per effetto del PAT, posto che la previsione costituisce norma imperativa e inderogabile»; Cons. Stato, sez. VI, 3 giugno 2022, n. 4520, che osserva altresì che tale interpretazione è «strumentale all’attuazione di ulteriori istituti processuali funzionali alla sollecita definizione della controversia, richiedenti la tempestiva acquisizione al giudizio della sentenza gravata, in assenza della quale alcuna decisione potrebbe al riguardo essere assunta», quali la definizione dei giudizio in esito all’udienza cautelare ai sensi dell’art. 60 c.p.a. e la decisione dei ricorsi suscettibili d’immediata definizione ai sensi dell’art. 72-bis cod. proc. amm.; sez. VI, 31 gennaio 2017, n. 397, che puntualizza come il termine sia ridotto a 15 giorni nelle controversie relative alle procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture; sez. VI, 28 giugno 2016, n. 2856; sez. V, 6 agosto 2012, n. 4516, e sez. III, 14 dicembre 2011, n. 6572, le quali precisano che il termine è dimidiato per i procedimenti in camera di consiglio, tra cui il giudizio di ottemperanza, così come, secondo sez. III, 14 marzo 2012, n. 1432, per le controversie relative ai provvedimenti della Commissione centrale per la definizione ed applicazione delle speciali misure di prevenzione nei confronti dei collaboratori e testimoni di giustizia).
  4. Tale orientamento è sostanzialmente confermativo, sia pure sulla base di diversi argomenti e in un diverso quadro normativo, di quello maturato prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo che faceva applicazione dell’art. 347, comma 2, c.p.c. – secondo cui «l’appellante deve inserire nel proprio fascicolo copia della sentenza appellata» – per affermare che «l’appellante dinanzi al consiglio di Stato è tenuto ad inserire nel suo fascicolo copia della sentenza impugnata, e tale deposito può effettuare sino a quando gli è consentito produrre documenti; che l’onere dell’appellante di depositare copia autentica della sentenza impugnata nel processo amministrativo può essere surrogato dalla produzione della sentenza fatta dall’appellato o anche dalla esibizione da parte dell’appellante di una copia non autentica, se non vi è contestazione; ma se manca del tutto la produzione della decisione impugnata, il giudice d’appello non può assegnare un termine all’appellante per provvedere, ma deve dichiarare l’improcedibilità dell’appello» (Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2009, n. 1682, e precedenti ivi richiamati fra cui l’essenziale Ad. plen. n. 20 del 1982).
  5. Nel vigore del c.p.a., si è invece subito ritenuto, dinanzi alla lettera dell’art. 94 c.p.a., che, sebbene non sia impedito il deposito di copia della sentenza impugnata separatamente rispetto al ricorso, o di copia non autentica, l’onere deve comunque essere assolto «nel veduto termine perentorio di trenta giorni dall’ultima notificazione del ricorso, dimezzato nel rito abbreviato» (Cons. Stato, sez. III, 14 giugno 2011, n. 3619) e tale tesi è stata per lungo tempo pressoché unanime, per quanto in un’occasione si sia adombrata incidentalmente la possibilità di ammettere che a tale adempimento si provveda «nei termini di deposito dei documenti previsti dal codice del processo amministrativo», per effetto del “rinvio esterno” dell’art. 39 c.p.a. all’art. 372 c.p.c., che consente il deposito autonomo di documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso per cassazione (Cons. Stato, sez. VI, 17 novembre 2020, n. 7133, che ha tuttavia dichiarato l’inammissibilità dell’appello in quanto ha riscontrato che «l’onere non risulta comunque in alcun modo validamente assolto nel termine di legge (né comunque assolto) da parte delle amministrazioni appellanti»).

Altre pronunce, affrontando singoli, particolari casi, hanno ritenuto che l’inammissibilità dell’appello dovesse essere dichiarata «soltanto laddove sia carente in senso assoluto la produzione della sentenza gravata» (Cons. Stato, Sez. IV, sentenza n. 4488 del 2020; in termini analoghi si v. la sentenza n. 1455 del 2014 della medesima sezione, che ha dichiarato il gravame “improcedibile”) e, su questa base, hanno considerato frutto di un errore materiale emendabile il deposito di un’ordinanza in luogo della sentenza impugnata (C.g.a., sez. giur., sentenza n. 843 del 2021; di diverso avviso C.g.a., sez. giur., sentenze n. 960 e 962 del 2022), oppure la mancanza del provvedimento tra gli allegati dell’appello quando la relativa indicazione fosse comunque presente nel foliario, circostanza che sarebbe stata idonea ad attribuire l’omissione a una mera “svista” o a un “inconveniente informativo”, senza che fosse in dubbio la volontà della parte di depositarlo (Sez. VII, sentenze n. 4130, n. 4831, n. 4832, n. 4833 e n. 4834 del 2024, nonché ordinanza n. 683 del 2024, che ha quindi concesso un termine per adempiere; Sez. VI, sentenza n. 1388 del 2024).

Talora infine, in via di prassi, si è preferito prescindere dall’esame della questione d’inammissibilità, invocando il principio della “ragione più liquida” per affrontare direttamente il merito (Sez. VII, sentenze n. 1848, n. 2571 e n. 8469 del 2024; Sez. II, sentenze n. 5299, n. 7622, n. 7623 del 2024).

Tali pronunce s’inserivano comunque in un contesto – che anzi, a ben vedere, davano anche quale presupposto – in cui l’orientamento più rigoroso, che considerava il mancato tempestivo deposito della sentenza impugnata una causa d’inammissibilità, era largamente maggioritario, al punto da far ritenere che non vi fosse un vero e proprio contrasto di giurisprudenza sull’interpretazione dell’art. 94 c.p.a. e che non fossero sussistenti le condizioni per deferire la questione all’Adunanza plenaria (Sez. IV, sentenza n. 4135 del 2024 e Sez. V, sentenza n. 1678 del 2024).

  1. Di recente, tuttavia, in giurisprudenza è stata sostenuta la tesi secondo cui la decadenza per omesso o tardivo deposito della sentenza impugnata sarebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza e con il diritto di azione e difesa di cui agli articoli 3, 24, 103, 113 della Costituzione, nonché all’art. 117, primo comma, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), in quanto rappresenterebbe una conseguenza sproporzionata che «non risulta sorretta da adeguate e concrete giustificazioni in punto di soddisfacimento dell’interesse delle parti (né di alcun interesse pubblico), non foss’altro perché anche in forza delle attuali regole sul processo amministrativo telematico, il giudice dell’impugnazione (come anche l’avvocato della controparte) può agevolmente reperire, in seno al fascicolo di primo grado (al quale ha accesso), copia digitale della sentenza impugnata» (Cons. Stato, sez. VI, 22 maggio 2024, n. 4542, che fa riferimento all’art. 11 delle regole tecniche-operative del processo amministrativo telematico di cui all’allegato 2 al decreto del Presidente del Consiglio di Stato 28 luglio 2011, emesso ai sensi dell’art. 13, comma 1, c.p.a., secondo cui «la trasmissione dei fascicoli informatici di primo grado con modalità telematiche […] avviene, tramite SIGA, mediante accesso diretto al fascicolo di primo grado da parte dei soggetti abilitati»).

In questa prospettiva, s’imporrebbe una lettura della disposizione costituzionalmente orientata, che trae argomento dalla considerazione che, nel più volte menzionato art. 94, la decadenza sarebbe «correlata, su un piano meramente strutturale del sintagma, unicamente al mancato rispetto del termine per il deposito dell’atto di impugnazione», e che quindi si potrebbe ritenere che l’inadempimento della parte appellante all’obbligo di deposito della sentenza di primo grado non comporti l’inammissibilità del gravame, bensì costituisca una «causa impeditiva della spedizione della causa in decisione», analogamente a quanto avviene in caso di mancato deposito dell’istanza di fissazione dell’udienza pubblica (sul punto viene richiamato quale precedente Cons. Stato, Ad. Plen., 22 dicembre 1982, n. 20, che – nel sistema precedente all’entrata in vigore del codice del processo in cui l’onere di deposito della sentenza di primo grado veniva tratto dall’art. 347, comma 2, c.p.c. – aveva ritenuto che «l’appellante [potesse] provvedere al deposito della sentenza impugnata fin quando sia a lui legittimamente dato produrre documenti» e che tale adempimento fosse «suscettibile di venire surrogato in virtù della acquisizione della sentenza in giudizio, verificantesi tramite la produzione della stessa effettuata da altra parte ovvero per effetto dell’avvenuto inserimento di una sua copia nel fascicolo d’ufficio», escludendosi invece che «in caso di omesso deposito della medesima, il giudice di appello [potesse] o [dovesse] fissare un termine per il relativo adempimento»; in quell’occasione l’appello era stato dichiarato “improcedibile” per assenza della sentenza impugnata nel fascicolo).

  1. Seguendo il medesimo percorso argomentativo – fondato, da un lato, sull’esigenza di un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 94 c.p.a. e, dall’altro, sull’ambiguità del dato letterale, che si presterebbe a diverse soluzioni ermeneutiche – altra pronuncia ha ritenuto che «le esigenze di carattere processuale poste a fondamento della soluzione finora seguita dalla giurisprudenza prevalente possono essere efficacemente soddisfatte con la fissazione di un termine, come condizione di procedibilità del gravame, per la produzione in giudizio di copia della sentenza impugnata» (Cons. Stato, sez. VI, 22 maggio 2024, n. 4548, la cui soluzione è dichiaratamente ispirata alla prassi instauratasi a seguito della sentenza n. 148 del 2021 della Corte costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale l’art. 44, comma 4, c.p.a. nella parte in cui consentiva al giudice di ordinare la rinnovazione della notificazione del ricorso, con esclusione di ogni decadenza, solo quando l’esito negativo della stessa dipendesse da causa non imputabile al notificante, osservando che sarebbe sproporzionato e irragionevole far «discendere da un vizio esterno all’atto di esercizio dell’azione stessa la definitiva impossibilità di far valere nel giudizio la situazione sostanziale sottostante»).
  2. Il collegio ritiene che l’orientamento tradizionale, ancora largamente maggioritario, sia più conforme all’attuale sistema processuale e che per un suo superamento non risultino decisivi gli argomenti portati a supporto di quello più recente.

12.1. In primo luogo, si deve osservare che l’interpretazione costituzionalmente orientata è una tecnica ermeneutica il cui esperimento incontra un limite nell’esistenza di un dato letterale chiaro e univoco (tra le tante, Corte cost., 26 ottobre 2023, n. 192 e precedenti ivi richiamati): nella specie, l’art. 94 c.p.a., mediante l’uso dell’avverbio “unitamente”, è univoco nello stabilire che il deposito della sentenza di primo grado debba avvenire nello stesso termine previsto per l’appello, con la logica conseguenza che, se è previsto a pena di decadenza il deposito del gravame, deve esserlo anche quello della pronuncia gravata.

Il canone della interpretazione letterale delle norme, del resto, è quello gerarchicamente sovraordinato a tutti gli altri, come sancito dall’art. 12 delle preleggi al codice civile: sul punto si richiamano le convergenti conclusioni raggiunte dalla Corte costituzionale (fra le tante, n. 192 del 2023 § 5.2.; n. 186 del 2020 §2.2.2.); dalle sezioni unite della Corte di cassazione (fra le tante, 28 gennaio 2021, n. 2061 § 4.3.1.; 23 aprile 2020, n. 8091 § 6); dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (n. 7 del 2022, § 5; n. 3 del 2017 § 3.1.; n. 3 del 2010 § 18.1., secondo cui il primato della interpretazione letterale non cede neppure davanti al principio di effettività della tutela).

12.2. A conforto di questa tesi soccorre anche l’esegesi sistematica che scaturisce dal confronto con l’art. 45, comma 4, c.p.a., secondo cui (diversamente dal giudizio di appello), in quello di primo grado «la mancata produzione, da parte del ricorrente, della copia del provvedimento impugnato e della documentazione a sostegno del ricorso non implica decadenza» (avendo il legislatore, con l’art. 46, comma 2, c.p.a. fatto gravare l’obbligo di deposito del provvedimento e della correlata documentazione sull’amministrazione). Non solo manca il presupposto perché si faccia ricorso al rinvio interno ex art. 38 c.p.a.: la disciplina sancita dall’art. 94, nella sua completezza, si pone come deroga espressa alle previsioni analoghe che caratterizzano il giudizio di primo grado. Difetta anche la identità di ratio e di interessi in gioco. L’art. 45, comma 4 c.p.a. presuppone e intende rimediare a una situazione di asimmetria informativa, che invece non sussiste nella fattispecie regolata dall’art. 94 c.p.a. Invero, la parte che intenda proporre un ricorso al T.a.r. non sempre ha a sua disposizione il provvedimento da impugnare, vuoi perché gli è stato comunicato nel solo dispositivo, vuoi perché, trattandosi di un terzo non destinatario dell’atto, non gli è stato comunicato affatto. A fronte di tale asimmetria tra il privato e l’amministrazione, sin da prima dell’entrata in vigore del c.p.a. si è affermato che il mancato deposito del provvedimento amministrativo impugnato non comporta decadenza. Ben diversa è la situazione dell’appellante, che ha la piena disponibilità della sentenza appellanda. Non può quindi darsi seguito all’argomento, che talora si riscontra negli scritti difensivi, secondo cui l’omesso deposito della sentenza in appello non determinerebbe decadenza, in virtù dell’art. 45, comma 4, c.p.a..

12.3. Tale lettura è coerente anche con l’evoluzione storica dell’ordinamento: a fronte del sistema processuale previgente in cui, in assenza di una disposizione specifica, veniva applicato l’art. 347, comma 2, c.p.a. – alla luce del quale poteva ritenersi che l’onere di deposito fosse suscettibile di essere adempiuto nel termine per la produzione dei documenti e di essere surrogato in virtù dell’acquisizione, comunque avvenuta, della sentenza in giudizio – il codice del processo amministrativo contiene una norma espressa e completa, che individua la fattispecie (l’omesso deposito della sentenza di primo grado nel termine di trenta giorni dall’ultima notificazione dell’appello) e ne definisce la disciplina (la “decadenza” ossia l’inammissibilità dell’appello).

La completezza della disciplina positiva sancita dall’art. 94 preclude l’operatività del “rinvio esterno” alle disposizioni del codice di procedura civile, le quali, ai sensi dell’art. 39, comma 1, c.p.a. sono applicabili al giudizio amministrativo «per quanto non disciplinato» dal codice che lo regola.

Detto altrimenti, l’applicazione delle disposizioni del codice di procedura civile nel processo amministrativo, per il tramite dell’art. 39 c.p.a., presuppone la doppia verifica che ci sia una lacuna nel c.p.a. o che la disposizione richiamata sia espressione di un principio generale che sia compatibile con il c.p.a.; conseguentemente, tale diretta applicazione è consentita nelle sole ipotesi in cui il primo ordinamento esprima principi generali che non rinvengono nel secondo una sufficiente ed esaustiva declinazione regolatoria (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 22 marzo 2024, n. 4; 27 aprile 2015, n. 5; 10 dicembre 2014, n. 33).

12.4. Sotto altro profilo, nemmeno l’avvento del processo amministrativo telematico giustifica una diversa lettura del richiamato art. 94.

12.4.1. In tale occasione, infatti, sono state apportate numerose modifiche al codice del processo (si pensi, per esempio, all’inserimento dei commi 1-bis e 1-ter nell’art. 25 o alle innovazioni relative all’art. 136 e a diverse norme di attuazione [in primis l’art. 5], per opera del decreto legge 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni in legge 25 ottobre 2016, n. 197), mentre tale disposizione, su cui era già maturato l’orientamento sopra richiamato, è rimasta intatta, a riprova dell’intenzione del legislatore di mantenere – meglio, di non eliminare – la sanzione della decadenza per mancato tempestivo deposito della sentenza di primo grado.

12.4.2. Né può ragionevolmente affermarsi che l’onere di deposito della sentenza impugnata sia divenuto un adempimento superfluo per effetto del processo telematico, che mette in collegamento il fascicolo digitale di primo grado e quello di appello e consente al giudice di appello di accedere ad entrambi e acquisire d’ufficio la sentenza. In disparte il rilievo che il dato letterale dell’art. 94 non prevede siffatta acquisizione di ufficio a fronte di un adempimento imposto alla parte a pena di decadenza, deve osservarsi che non vi è equivalenza giuridica tra il deposito della sentenza a cura della parte onerata e la sua acquisizione d’ufficio nel fascicolo di primo grado. Ciò che si acquisirebbe di ufficio è la sentenza senza la informazione, essenziale, se la stessa sia stata o meno notificata, informazione rilevante al fine della verifica della tempestività dell’appello. La parte appellante, con il deposito della sentenza, non si limita a compiere un’attività materiale, essa compie un’attività giuridica, perché, depositando la sentenza senza la documentazione attestante la sua notifica, assume implicitamente la responsabilità di dichiarare che la stessa non è stata notificata. Il giudice che acquisisse d’ufficio la sentenza appellata nel fascicolo di primo grado, in ossequio al principio della parità delle parti dovrebbe anche disporre istruttoria per verificare se la sentenza è stata o meno notificata, al fine della verifica della tempestività dell’appello. Ma è evidente che questo modus operandi si porrebbe in contrasto con le regole sull’onere della prova nel processo amministrativo, in cui il soccorso istruttorio non è consentito nei confronti della parte indebitamente inerte, ma solo nei confronti della parte che si trova in posizione asimmetrica rispetto alla prova e non riesce a fornirla nonostante ogni sforzo diligente.

12.5. A ben vedere, l’esigenza di un’interpretazione “adeguatrice” può escludersi anche perché la disposizione, come tradizionalmente interpretata, non si pone in contrasto con le norme costituzionali o con quelle europee.

12.5.1. La stessa sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 2021, in continuità con una consolidata giurisprudenza, ha ribadito che «il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, che viene superato qualora emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire in giudizio» (negli stessi termini, più di recente, si veda la sentenza n. 96 del 3 giugno 2024).

Nel caso di specie, non può dirsi che l’onere di tempestivo deposito di copia della sentenza appellata comporti una compressione di diritti di azione e difesa, perché per la parte, anche non costituita nel giudizio dinanzi al T.a.r., è agevole recuperare la pronuncia, accedendo al fascicolo del giudizio di primo grado, risultando destinataria della sua notifica o, eventualmente, anche rinvenendola sul sito della giustizia amministrativa (e rimanendo applicabile, nei rari casi in cui questo non sia stato possibile in concreto, l’istituto della rimessione in termini per errore scusabile in presenza di «gravi impedimenti di fatto», ai sensi dell’art. 37 c.p.a.).

Sotto altro profilo, l’onere non comporta costi significativi per la parte, potendo essere assolto mediante deposito di una copia semplice (da questo punto di vista, vi è una differenza rispetto all’art. 369 c.p.c., che richiede, a pena d’improcedibilità, che insieme al ricorso per cassazione sia depositata, tra l’altro, «copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta»).

12.5.2. Neppure si ravvisano ragioni di contrasto con il diritto europeo (art. 47 della Carta di Nizza e art. 6 della CEDU).

Non sembrano attagliarsi al sistema processuale amministrativo – che appunto reputa sufficiente il deposito di una copia semplice – le considerazioni che hanno indotto la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza 23 maggio 2024, Patricolo and others v. Italy, pt. 102, a ritenere violato l’art. 6, comma 1, della CEDU in conseguenza della dichiarazione d’inammissibilità di ricorsi per cassazione fondata sulla mancanza dell’attestazione di conformità della copia della sentenza gravata con essi impugnata – «the Court considers that the absence of an attestation that the paper copies of the notice of service were true copies did not prevent the Court of Cassation from assessing compliance with the short time limit for filing an appeal at the earliest stage of the proceedings. Declaring the appeals inadmissible, moreover without giving the applicants a fair chance to submit the attestation at a later stage – especially in a transitional phase from paper-based to electronic proceedings – therefore went beyond the aim of ensuring legal certainty and the proper administration of justice and created a barrier preventing the applicants from having their case determined on the merits by the Court of Cassation»).

A sua volta, la Corte di giustizia UE ha escluso la violazione dell’art. 47 della Carta di Nizza in fattispecie caratterizzate dalla imposizione, ai fini della ammissibilità della proposizione di domande di giustizia, di oneri ben più consistenti (del mero deposito di una copia informale della sentenza impugnata), come nel caso della norma nazionale che imponga la cautio pro expensis (Corte di giustizia UE, sez. III, 15 settembre 2016, C-439/14 e C-488/14, SC STAR), questo perché ha sempre ritenuto che il diritto di agire in giudizio non sia un diritto assoluto, di modo che possono esserne previste restrizioni purché proporzionate e volte al perseguimento di uno scopo legittimo (cfr. Corte di giustizia UE, sez. V, 6 ottobre 2015, C-61/14, Orizzonte salute, che ha ritenuta legittima la disciplina del contributo unificato, in sintonia con quanto ritenuto successivamente da Corte cost. n. 78 del 2016; sono convergenti i principi elaborate da Corte di giustizia UE, sez. II, 30 giugno 2016, C-205715, Directia Generala, sempre in materia di presunti ostacoli all’accesso alla giustizia).

Alle stesse conclusioni è pervenuta la giurisprudenza della Corte costituzionale – cui si è sempre conformata quella delle Sezioni unite della Corte di cassazione (da ultimo 7 febbraio 2024, n. 3452 in tema di mediazione obbligatoria) – allorquando, esaminando le varie fattispecie di “giurisdizione condizionata” presenti nell’ordinamento, ha ritenuto che l’art. 24 Cost., nel tutelare il diritto di azione «non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare interessi generali, con le dilazioni conseguenti…» (Corte cost. n. 276 del 2000; prima ancora, Corte cost. n. 46 del 1974, n. 47 del 1964, n. 40 del 1962).

A tali principi ha fatto espresso rinvio anche questo Consiglio (cfr. sez. IV, n. 880 del 2018) quando si è confrontato con fattispecie di “giurisdizione amministrativa condizionata” (nella specie art. 1363, comma 2, d.lgs. n. 66 del 2010) come tale qualificata dal giudice delle leggi (che non ne ha mai affermato la illegittimità, cfr. Corte cost. n. 322 del 2013, n. 113 del 2017, n. 37 del 1992).

12.6. Pertanto, non si può ritenere che il menzionato art. 94 imponga un adempimento sproporzionato, risultando piuttosto un corollario del dovere di cooperazione di cui all’art. 2, comma 2, c.p.a. preordinato ad assicurare la ragionevole durata del processo (e, in quest’ottica, potrebbe essere agevolato mediante un’evoluzione delle modalità di deposito telematico dell’atto che, per mezzo di una modifica del modulo ovvero un “alert”, rammenti alla parte la necessità di allegare anche copia della pronuncia oggetto del gravame).

Il tempestivo deposito della sentenza impugnata, così come la correlata conseguenza dell’inammissibilità dell’appello, si giustifica infatti in considerazione dello scopo che persegue, ossia consentire al giudice dell’appello di avere immediatamente tutti gli elementi necessari per una prima valutazione del gravame – anche ai fini dell’applicazione degli artt. 60 e 72-bis c.p.a., nonché in relazione alla sua eventuale manifesta irricevibilità per tardività (nella misura in cui la parte onerata del deposito della sentenza dichiara sotto la sua responsabilità che la medesima è stata o non è stata notificata) – senza dover svolgere in proprio indagini integrative all’interno del fascicolo del giudizio di primo grado; secondo una logica non dissimile da quella che ha condotto la Corte di cassazione e la Corte costituzionale a esigere la “autosufficienza”, rispettivamente, del ricorso per cassazione e dell’ordinanza di rimessione (sul punto si veda, tra le più recenti, Cass. civ., sez. II, 10 maggio 2024, n. 12835 e Corte cost., 1 giugno 2023, n. 108). Logica, che non è stata ritenuta in contrasto con il diritto di difesa dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo che, nella sentenza 28 ottobre 2021, Succi et autres c. Italie, § 75, ha considerato tale requisito come volto a semplificare l’attività della Suprema Corte e a garantire allo stesso tempo la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia – «la Cour estime que ce principe vise à simplifier l’activité de la Cour de cassation et à assurer en même temps la sécurité juridique et la bonne administration de la justice»).

Tale scopo non sarebbe adeguatamente perseguito mediante un’interpretazione della norma che consentisse il deposito nel termine per produrre i documenti – anche considerato che la sentenza di primo grado non può considerarsi un “documento” ai fini processuali, perché non costituisce un mezzo di prova, bensì l’oggetto del giudizio d’impugnazione – o che comportasse la fissazione di un ulteriore termine da parte del giudice – possibilità che allo stato non trova fondamento nelle norme processuali (come dimostrato dal fatto che per consentire la rinnovazione della notificazione nulla è stata necessaria una pronuncia della Corte costituzionale) e che darebbe luogo ad una fattispecie di “soccorso istruttorio” praeter legem, a detrimento di una delle parti del giudizio ed a favore di quella che è stata oggettivamente negligente.

  1. Tuttavia, alla luce dell’obiettiva esistenza del contrasto giurisprudenziale di cui si è dato conto nonché del fatto che l’esigenza di certezza del diritto – cui è correlata la funzione nomofilattica – si esprime al massimo grado rispetto alle disposizioni processuali dalla cui applicazione dipende il concreto esercizio dei diritti di azione e difesa, il collegio ritiene opportuno deferire la questione all’Adunanza plenaria, cui si sottopone il seguente quesito: «se l’onere di deposito della sentenza di primo grado entro trenta giorni dall’ultima notificazione, stabilito dall’art. 94 c.p.a., sia previsto a pena di decadenza, con la conseguenza che, in caso d’inadempimento, l’appello deve essere dichiarato inammissibile, ovvero se la disposizione debba essere intesa, in un’ottica costituzionalmente orientata al rispetto del principio di ragionevolezza e dei diritti di azione e difesa, nel senso che l’onere non è previsto a pena di decadenza e può dunque essere assolto mediante un deposito tardivo ovvero surrogato dalla trasmissione del fascicolo di primo grado, anche nella forma dell’accesso diretto da parte del giudice di secondo grado».

Il presente deferimento si affianca a quello effettuato – con dovizia di argomenti – dalla V sezione del Consiglio di Stato con l’ordinanza n. 9116 del 13 novembre 2024.

  1. La sezione, salvo che l’Adunanza plenaria intenda decidere per intero la causa, ai sensi dell’art. 99, comma 4, c.p.a., si riserva, all’esito della restituzione degli atti, la decisione del ricorso in appello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione II, non definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, ne dispone il deferimento all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Manda alla segreteria della sezione per gli adempimenti di competenza.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 novembre 2024 con l’intervento dei magistrati:

Vito Poli, Presidente

Carmelina Addesso, Consigliere

Maria Stella Boscarino, Consigliere

Alessandro Enrico Basilico, Consigliere, Estensore

Stefano Filippini, Consigliere

 
 
L’ESTENSORE IL PRESIDENTE
Alessandro Enrico Basilico Vito Poli
 
 
 

IL SEGRETARIO