Il TAR Lombardia, chiamato a pronunciarsi sulla questione in materia di edilizia ed urbanistica, ha ribadito il principio secondo cui la distanza minima di dieci metri, prevista dall’art. 9 del D.M. 1444/1968, deve essere rispettata in relazione alle pareti che si fronteggiano effettivamente. Tale disposizione stabilisce infatti che la distanza minima di dieci metri deve intercorrere tra pareti finestrate di edifici antistanti, per assicurare una sufficiente ventilazione e illuminazione degli spazi abitativi, prevenendo condizioni di scarsa salubrità. Di conseguenza, la distanza minima non è applicabile in modo assoluto a tutte le pareti dell’edificio, ma solo a quelle che si fronteggiano e presentano un rischio reale di insufficiente ventilazione o illuminazione. Nell’esaminare la questione, i giudici del  TAR hanno precisato che se le pareti di due edifici non si fronteggiano direttamente, ma una delle pareti è situata ad un’altezza inferiore e non interagisce con la finestra dell’altro edificio, la distanza di dieci metri deve essere assicurata solo nei tratti di parete in cui potrebbe manifestarsi un effettivo problema di salubrità. Pertanto, nel caso in cui due pareti aderiscano l’una all’altra lungo tutto il loro fronte comune, e una di esse si arresti in altezza al di sotto della finestra dell’altra, l’obbligo di rispettare la distanza minima si applica entro il segmento in cui la parete finestrata ideale (se prolungata) andrebbe a incontrare l’altra, assicurando che la distanza minima sia osservata in relazione alle porzioni di pareti effettivamente antistanti. In tal modo, il TAR ha confermato che la norma deve essere interpretata in maniera da preservare l’efficacia della distanza minima senza imporre una rigidità non giustificata dalle condizioni specifiche dei singoli edifici. La distanza di dieci metri deve garantire la salubrità dell’affaccio e il corretto equilibrio ambientale, ma è applicabile solo dove si verifica un’effettiva possibilità di interferenza tra le pareti, evitando l’insorgenza di intercapedini nocive.

Pubblicato il 18/07/2024

  1. 02227/2024 REG.PROV.COLL.
  2. 00149/2023 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

(Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 149 del 2023, proposto da – OMISSIS -, rappresentato e difeso dall’avvocato Luca Lucini, con domicilio digitale come da PEC da Registro di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Milano, via Vincenzo Bellini, 13;

contro

il Comune di San Rocco al Porto, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe Franco Ferrari, con domicilio digitale come da PEC da Registro di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Milano, via Larga 23;

nei confronti

di – OMISSIS -, rappresentati e difesi dall’avvocato Francesco Giambelluca e con domicilio digitale come da PEC da Registro di Giustizia;

per l’annullamento

  1. i) della nota comunale prot. n. – OMISSIS – del 08/11/2022 (notificata in data 08/11/2022) avente ad oggetto “Segnalazione di difformità urbanistico – edilizia e contestuale diffida all’assunzione dei doverosi provvedimenti ai sensi e per gli effetti dell’art. 19 della L. 241/90, dell’art. 23 commi 1-6 e dell’art. 27 del d.P.R. 380/2001 in termini di sospensione dei lavori edili in corso e ordine di non effettuazione degli interventi previsti con SCIA prot. 6159 del 06/12/2022 pratica edilizia n. 93/2022 – Prot. 9927 del 29/10/2022 – Riscontro”;
  2. ii) degli artt. 3.5 delle NTA del Piano delle Regole e 2.5 delle NTA del Documento di Piano del PGT;

iii) della nota comunale prot. n. 0006305/2022 dell’11/07/2022, avente ad oggetto “Segnalazione Certificata Inizio Attività alternativa al PdC per la costruzione di una tettoia adibita a posto auto – Pratica Edilizia n. 93/2022 – Richiesta integrazioni”;

nonché per la conseguente declaratoria dell’illegittimità della SCIA prot. 6159 del 06/07/2022 e s.m.i. pratica edilizia n. 93/2022 presentata dai controinteressati e del manufatto edificato per effetto della stessa, nonché della nota congiunta dei proprietari del manufatto edificato e del tecnico prot. n. 0010016 del 03/11/2022.

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di San Rocco al Porto e dei controinteressati;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 12 luglio 2024 la dott.ssa Silvia Torraca e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

Il ricorrente ha esposto in fatto:

– di essere comproprietario del compendio immobiliare sito nel Comune di San Rocco al Porto, – OMISSIS -, meglio identificato in atti, facente parte di un fabbricato di civile abitazione composto da tre piani fuori terra, in parte destinato alla sua abitazione, con relativa area cortilizia pertinenziale;

– che il predetto compendio confina con l’area di proprietà dei controinteressati, la quale ricomprende anche un vialetto di accesso alle abitazioni degli stessi e di un terzo;

– di essersi avveduto che, sulla predetta porzione di proprietà dei controinteressati, erano stati avviati lavori preparatori alla realizzazione di un portico per il ricovero di autovetture;

– di aver, quindi, incaricato un professionista (ing. Mazzoni) di verificare la conformità del progetto alla normativa vigente; a tal fine, il predetto professionista, in data 13.10.2022, aveva presentato istanza di accesso agli atti presso il Comune di San Rocco al Porto;

– che, a seguito dell’ostensione degli atti richiesti, era emerso che i controinteressati, in data 06.07.2022, avevano presentato una SCIA alternativa al permesso di costruire ai sensi dell’art. 23 D.P.R. 380/2001 per la realizzazione di una “nuova tettoia per posto auto” consistente in un manufatto chiuso su tre lati con pareti in muratura, una delle quali posta a confine con l’area di proprietà del ricorrente, in violazione della distanza minima di dieci metri prevista dall’art. 9 D.M. 1444/1968 (atteso che una delle pareti perimetrali del ricovero per auto era destinata a fronteggiare l’edificio di parte ricorrente, dotato di pareti finestrate) e senza che nel progetto presentato venisse in alcun modo rappresentata la presenza dei fabbricati confinanti;

– che il Responsabile dell’Area Tecnica del Comune aveva, quindi, formulato una richiesta di parere relativa all’interpretazione autentica dell’art. 3.5 delle NTA del Piano delle regole di cui al vigente PGT, chiedendo se gli edifici accessori dovessero comunque rispettare le distanze previste dal predetto art. 3.5; in riscontro a tale richiesta, il redattore del PGT, Arch, Luppi, con nota del 05.10.2022, aveva escluso il contrasto del progetto con il PGT;

– di avere inviato al Comune, in data 29.10.2022, formale diffida all’assunzione dei provvedimenti previsti dagli artt. 23-27 D.P.R. 380/2001 e dall’art. 19 l. 241/1990, evidenziando sia la carenza della documentazione fornita dai controinteressati a corredo della SCIA sia la violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968 in considerazione del fatto che il muro cieco, del fronte est, del costruendo manufatto si poneva a distanza di 5,13 m dal fronte finestrato ovest dell’esistente fabbricato di – OMISSIS -, nonché a distanza di 6,56 m dalle esistenti finestre dell’unità sita al piano terra;

– che, con nota del 08.11.2022, il Comune aveva respinto tale richiesta atteso che i controinteressati avevano comunicato la volontà di modificare il progetto, realizzando una semplice tettoia aperta sui quattro lati, con conseguente superamento del paventato problema di inosservanza delle distanze minime;

– che, in realtà, l’opera realizzata consiste in un manufatto chiuso su tre lati e sino a circa metà altezza da muretti collocati tra i pilastri di sostegno alla copertura, “evidentemente destinati ad essere completati con vetrature o altri espedienti volti alla chiusura complessiva”, uno dei quali a confine con la proprietà del ricorrente, e la cui copertura è sorretta da massicce assi di legno di circa 50 cm di spessore, onde i lati perimetrali sono in larga parte tamponati.

Avverso la predetta nota comunale ha proposto impugnazione il ricorrente, deducendone l’illegittimità per i seguenti motivi: 1) violazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968; 2) violazione dell’art. 23 D.P.R. 380/2001 e dell’art. 19 l. 241/1990; 3) eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, sviamento di potere; 4) violazione dell’art. 24 del Regolamento Edilizio Comunale.

Il ricorrente ha altresì censurato l’art. 3.5 delle NTA del Piano delle Regole e l’art. 2.5 delle NTA del Documento di Piano del PGT recanti, rispettivamente, la disciplina delle “Distanze e altezze” e delle “Distanze tra gli edifici, chiedendone la disapplicazione “nella misura in cui esse deroghino alle inderogabili previsioni contenute nel d.m. n. 1444 del 1968”.

Si sono costituiti il Comune di San Rocco al Porto e i controinteressati, eccependo in via preliminare l’irricevibilità del ricorso per tardività nonché l’inammissibilità dello stesso per difetto di interesse e di legittimazione. Nel merito, hanno controdedotto alle argomentazioni di parte ricorrente, instando per il rigetto del gravame.

All’udienza pubblica del 12 luglio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

  1. Deve preliminarmente essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso limitatamente alla domanda di annullamento della SCIA.

Come è noto, con l’introduzione – per effetto dell’art. 6, comma 1, lett. c), D.L. 13 agosto 2011, n. 138, (convertito, con modificazioni, dalla L. 14 settembre 2011, n. 148) – del comma 6-ter nell’art. 19 della l. 7 agosto 1990, n. 241, il legislatore ha stabilito che «La segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili. Gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104».

È stata, in tal modo, chiarita la natura privatistica della segnalazione certificata di inizio attività, la quale non può pertanto essere considerata alla stregua di una autorizzazione implicita di natura provvedimentale, impugnabile dal terzo mediante l’azione generale di annullamento.

Come chiarito dalla Corte costituzionale con sentenza 13 marzo 2019, n. 45, “il comma 6-ter è stato introdotto dall’art. 6, comma 1, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella L. 14 settembre 2011, n. 148, in aperta dialettica con la nota sentenza n. 15 del 2011 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la finalità di escludere l’esistenza di atti amministrativi impugnabili (il cosiddetto silenzio-diniego) e quindi di limitare le possibilità di tutela del terzo all’azione contro il silenzio, inteso in modo tradizionale come inadempimento. Il riferimento alle “verifiche spettanti all’amministrazione”, dunque, non è finalizzato ad introdurre nuovi poteri, ma è funzionale alla sollecitazione da parte del terzo”.

La Consulta ha precisato che “il comma 3 dell’art. 19 attribuisce alla PA un triplice ordine di poteri (inibitori, repressivi e conformativi), esercitabili entro il termine ordinario di sessanta giorni dalla presentazione della SCIA, dando la preferenza a quelli conformativi, “qualora sia possibile”; mentre il successivo comma 4 prevede che, decorso tale termine, quei poteri sono ancora esercitabili “in presenza delle condizioni” previste dall’art. 21-novies della stessa L. n. 241 del 1990…è a questi poteri che deve ritenersi faccia riferimento il comma 6-ter”.

Attesa, pertanto, la tassatività dei rimedi configurati dal legislatore in capo al terzo che intenda contestare l’intervento oggetto della SCIA, deve concludersi che è consentito all’odierno ricorrente chiedere l’annullamento del provvedimento con cui, a fronte della sollecitazione all’attivazione dei poteri inibitori spettanti all’Amministrazione, quest’ultima abbia espressamente comunicato di non ravvisare i presupposti per il relativo esercizio, ma non anche domandare l’annullamento della segnalazione certificata di inizio attività.

  1. I rilievi sin qui esposti consentono, peraltro, di disattendere l’eccezione di inammissibilità della restante parte del ricorso, sollevata dal Comune in ragione dell’asserita natura non provvedimentale della nota comunale emessa in data 08.11.2022.

Nella pronuncia sopra richiamata la Corte costituzionale ha chiarito che “Le verifiche cui è chiamata l’amministrazione ai sensi del comma 6-ter sono dunque quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19, da esercitarsi entro i sessanta o trenta giorni dalla presentazione della SCIA (commi 3 e 6-bis), e poi entro i successivi diciotto mesi (comma 4, che rinvia all’art. 21-novies). Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue”.

Ebbene, allorché il terzo, azionando il suddetto interesse legittimo pretensivo, abbia sollecitato l’esercizio delle verifiche spettanti all’Amministrazione, può verificarsi che quest’ultima rimanga inerte ovvero adotti un provvedimento espresso: soltanto nel primo caso, l’art. 19, co. 6-ter, II pt. L. 241/1990 stabilisce che il terzo possa invocare “esclusivamente” il rimedio dell’azione avverso il silenzio-inadempimento ex art. 31 c.p.a.; nella seconda ipotesi – che qui viene in rilievo -, essendosi in presenza di un provvedimento sfavorevole (di diniego all’esercizio dei poteri di cui ai commi 3 e 4 del medesimo art. 19), il terzo sarà, invece, onerato della relativa impugnazione mediante l’azione generale di annullamento di cui all’art. 29 c.p.a.

Né sul punto può condividersi l’assunto della difesa comunale, secondo cui la nota de qua sarebbe priva di valore lesivo in quanto “le segnalazioni di abusi edilizi…hanno natura di atti di mero impulso liberamente valutabili dall’Amministrazione e privi della qualifica di istanza, tale da far sorgere un diritto ad un provvedimento espresso – impugnabile – da parte del Comune”.

Come visto, infatti, con la nota in esame l’Amministrazione ha riscontrato negativamente la richiesta avanzata dal ricorrente ai fini dell’esercizio delle verifiche ad essa spettanti ai sensi dell’art. 19 l. 241/1990 e degli artt. 23-27 D.P.R. 380/2001, richiesta che è idonea a far sorgere un preciso obbligo dell’Amministrazione di provvedere, posto che, diversamente opinando, non si giustificherebbe la previsione – vieppiù come rimedio tipico – dell’azione avverso il silenzio-inadempimento in caso di inerzia dell’Amministrazione medesima (v. art. 19, co. 6-ter, II pt.cit.).

Correttamente, pertanto, nel caso in esame, l’odierno ricorrente ha chiesto l’annullamento della nota del 08.11.2022, con cui il Comune ha espressamente respinto la richiesta di intervento inibitorio dallo stesso propulsata.

  1. Chiarito, pertanto, come il perimetro dell’odierno gravame debba essere circoscritto all’annullamento della nota comunale adottata in data 08.11.2022, devono essere ulteriormente delibate le eccezioni di irricevibilità e inammissibilità del ricorso per difetto di interesse.
  2. Con la prima si eccepisce la tardività dell’azione sul presupposto che “la piena lesività…del manufatto e la sua consistenza, nonché il relativo titolo abilitativo (SCIA) erano ben noti sia dalla percezione visiva sia dalla relazione del tecnico di parte dell’istante ben prima del 29.10.2022. Pertanto il ricorso è tardivo…in quanto l’impugnativa non può essere rivolta avverso la nota comunale di mancato avvio del procedimento di repressione dell’abuso edilizio”.

4.1. L’eccezione è infondata.

La Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 145 del 2019, ha chiarito che la sollecitazione da parte del terzo dei poteri di verifica spettanti all’Amministrazione soggiace agli stessi termini previsti dai commi 3 e 4 (ridotti ai sensi del co. 6-bis in caso di SCIA edilizia) per l’esercizio diretto dei medesimi poteri da parte dell’Amministrazione.

È poi stata affermata, quale regola generale, quella secondo cui, ai fini della decorrenza dei termini per l’impugnazione di un titolo edilizio, occorre che le opere rivelino, in modo certo ed univoco, le loro caratteristiche e, quindi, l’entità delle violazioni urbanistiche e della lesione eventualmente derivante dal provvedimento (cfr. Cons.Stato, IV, 23 luglio 2009, n. 4616). Di conseguenza, in mancanza di altri ed inequivoci elementi probatori, il termine decorre con il completamento dei lavori, a meno che non venga provata una conoscenza anticipata o si deducano censure di assoluta inedificabilità dell’area o analoghe censure, nel qual caso risulta sufficiente la conoscenza dell’iniziativa in corso (cfr. Cons. Stato, IV, 10 dicembre 2007, n. 6342).

Invero, l’effetto lesivo si atteggia diversamente (e, come tale, viene percepito) a seconda che si contesti l’illegittimità del titolo edilizio per il solo fatto che esso sia stato rilasciato (ad esempio, per contrasto con l’inedificabilità assoluta dell’area) ovvero per il contenuto specifico del progetto edilizio assentito, come nel caso in cui l’opera non rispetti le distanze dalle costruzioni (cfr. TAR Liguria, Genova, I, 25 gennaio 2010, n. 192). Pertanto, la regola generale sopra esposta – secondo la quale, in assenza di univoci elementi probatori, il termine per ricorrere decorre dalla data di ultimazione dei lavori – deve essere temperata avendo riguardo al concreto svolgersi della situazione di fatto in relazione alla violazione urbanistica che si assume verificata (cfr. TAR Puglia, Bari, II, 4 giugno 2010, n. 2242).

Nel caso in esame, il ricorrente, in data 13.10.2022 ha formulato – per il tramite del professionista incaricato – istanza di accesso agli atti relativi alla pratica edilizia di cui è causa (doc. 10 ricorr.) e il successivo 29.10.2022 ha trasmesso al Comune l’istanza volta all’attivazione dei poteri inibitori, dal cui tenore si desume la conoscenza, in capo al medesimo, del contenuto della SCIA presentata dai controinteressati (cfr. “con riferimento agli atti depositati presso il Comune di San Rocco (LO) di cui alla SCIA prot. 6159 del 06.07.2022 – Pratica Edilizia n° 93/2022 presentata dai Signori – OMISSIS -/- OMISSIS – per la realizzazione di un porticato con tamponatura su tre lati, due dei quali prospicienti le proprietà dei miei assistititi”).

Ebbene, in assenza di elementi di segno diverso – la cui dimostrazione gravava sull’amministrazione resistente e sui controinteressati, avendo essi formulato la relativa eccezione di tardività dell’azione – deve inferirsi che la conoscenza del contenuto della SCIA sia stata acquisita dal ricorrente nel lasso di tempo intercorrente tra la presentazione dell’istanza di accesso (13.10.2022) e l’invio della richiesta di sollecitazione delle verifiche spettanti all’Amministrazione (29.10.2022).

Avendo il ricorrente azionato il proprio interesse legittimo pretensivo all’esercizio dei poteri di verifica mediante l’invio dell’istanza del 29.10.2022, deve pertanto ritenersi che egli abbia osservato il termine di cui all’art. 19, co. 3 e 6-bis l. 241/1990 e che abbia, in seguito, tempestivamente proposto il ricorso avverso la nota comunale avversata.

  1. Del pari infondata è l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse.

5.1. Sotto un primo profilo, va disatteso – per le ragioni sopra illustrate – l’assunto secondo cui “la nota comunale è del tutto priva di lesività, con conseguente palese carenza di interesse in capo al ricorrente, che nessun vantaggio potrebbe trarre dall’annullamento della medesima. Ove infatti tale nota venisse annullata, il manufatto non diverrebbe di certo illegittimo, posto che si regge su una regolare SCIA che non può essere oggetto di declaratoria di illegittimità”: come chiarito, infatti, l’istanza presentata dal ricorrente in data 29.10.2022 (doc. 11) era espressamente finalizzata a sollecitare l’adozione dei provvedimenti inibitori spettanti all’amministrazione, sul presupposto della assenza, nella specie, dei requisiti previsti per l’avvio dell’attività edilizia da parte dei controinteressati (v. art. 19, co. 3 l. 241/1990).

L’eventuale accoglimento dell’odierno ricorso, pertanto, determinerebbe l’accertamento dell’assenza dei presupposti per l’avvio dell’attività posta in essere dai controinteressati, con conseguente travolgimento del titolo ad essa sotteso.

5.2. Sotto un diverso profilo, non può condividersi la dedotta carenza di interesse (e/o di legittimazione) al ricorso in ragione dell’asserita assenza di una situazione di antistanza tra il manufatto di cui è controversia e l’immobile di proprietà del ricorrente, per essere il primo posto al piano terra e il secondo al piano secondo.

Soccorrono sul punto le conclusioni raggiunte dalla Corte di Cassazione, sez. II, nell’ordinanza n. 28147 del 27 settembre 2022.

Nel rispondere al quesito se, ai fini dell’applicazione della distanza minima assoluta di dieci metri di cui all’art. 9 D.M. 1444/1968, la nozione di edifici antistanti comprenda sempre anche il caso in cui la parete finestrata dell’uno non fronteggi la parete dell’altro, bensì prospetti uno spazio libero (poiché quest’ultima rimane ad un’altezza inferiore), e dunque l’obbligo di rispettare tale distanza sussista anche quando le pareti siano aderenti l’una all’altra lungo tutto il fronte comune (cioè, senza intercapedini residue) e l’una si arresti in altezza al di sotto della soglia inferiore della/e finestra/e (con conseguente e corrispondente obbligo di arretrare il fronte della parete superiore finestrata), la Suprema Corte ha chiarito che “L’obbligo di rispettare una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, previsto dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, vale anche quando la finestra di una parete non fronteggi l’altra parete (per essere quest’ultima di altezza minore dell’altra), tranne che le due pareti aderiscano in basso l’una all’altra su tutto il fronte e per tutta l’altezza corrispondente, senza interstizi o intercapedini residui”.

Ciò in quanto “La finalità del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9, è di salvaguardare l’interesse pubblico sanitario (cfr. Cass. 20574/1997) alla salubrità dell’affacciarsi di esseri viventi agli spazi intercorrenti fra gli edifici che si fronteggiano, quando almeno uno dei due abbia una parete finestrata (cfr. Cass. SU 1486/1997), a prescindere dal fatto che quest’ultima sia costruita prima o dopo l’altra parete (cfr. Cass. 13547/2011). Strumento ne è il rispetto di una distanza minima, tale da garantire la circolazione d’aria e la irradiazione di luce idonee a mantenere la salubrità di affaccio. La nozione di “antistanza” o “frontalità” (se si potesse dir così) va riferita e circoscritta a (porzioni di) pareti che si fronteggiano e pertanto presentano, ove non distanziate adeguatamente, un problema di circolazione d’aria e/o d’irradiazione di luce insufficienti, con un pericolo concreto che si crei un’intercapedine nociva. Ove le pareti si fronteggino solo per un tratto – perchè di diversa estensione orizzontale, verticale o non perfettamente parallele, il rispetto della distanza D.M. n. 1444 del 1968, ex art. 9, deve essere assicurato entro (e solo entro) le porzioni di pareti antistanti, nell’accezione predetta (cfr. Cass. 4639/1997). In altre parole, la distanza di 10 metri – che è misurata in modo lineare (e non radiale, come accade invece rispetto alle vedute: cfr. Cass. 9649/2016) – va rispettata entro il segmento delle pareti tale che l’avanzamento (ideale, meramente pensato) dell’una la porti ad incontrare l’altra, sia pure in quel segmento (cfr. Cass. 4175/2001)”.

Anche la giurisprudenza amministrativa ha da tempo evidenziato che la distanza tra fabbricati di cui all’art. 9 del D.M. 1444/1968 va computata in maniera lineare e non radiale e che tale distanza deve concernere pareti finestrate, anche di diversa altezza (v. di recente Cons. Stato, sez. IV, 17/11/2023, n. 9872); non può invece ritenersi sussistente l’obbligo di rispetto della predetta distanza fra pareti che non si fronteggiano (ossia, ipotizzando una prosecuzione ideale delle pareti antistanti) (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 3 luglio 2023 n. 6438; Sez. II, 10 luglio 2020 n. 4465).

Declinando i suddetti principi al caso di specie, deve ritenersi che la circostanza che l’immobile di proprietà del ricorrente e il manufatto controverso siano posti a livelli diversi non sia idonea ad escludere la situazione di “frontistanza” di cui all’art. 9 D.M. 1444/1968, con conseguente sussistenza dell’interesse e della legittimazione del ricorrente a lamentarne la violazione.

  1. Passando all’esame del merito, va osservato quanto segue.
  2. Ritiene il Collegio che evidenti ragioni di ordine logico impongano di esaminare in primo luogo la censura di eccesso di potere per difetto di motivazione e istruttoria, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, sviamento di potere.
  3. Sotto un primo profilo, il ricorrente lamenta che il Comune avrebbe escluso l’applicazione della norma anzidetta sull’erroneo presupposto della “variata conformazione della nuova costruzione”, assumendo che il costruendo manufatto sarebbe consistito non più in un porticato chiuso su tre lati, come originariamente previsto nel progetto allegato alla SCIA, bensì (previa presentazione di apposita variante, preannunciata dai controinteressati) in una “semplice tettoia aperta sui 4 lati” costituita da soli pilastri, inidonei a impedire la circolazione dell’aria e della luce, e copertura. Per converso, la predetta variante non sarebbe mai stata presentata.

8.1. La doglianza è fondata.

È pacifico, da un lato, che il progetto allegato alla SCIA presentata dai controinteressati prevedesse la realizzazione di un manufatto per il ricovero delle autovetture dotato di copertura e chiuso su tre dei quattro lati e, dall’altro, che il Comune abbia respinto l’istanza volta a sollecitare l’esercizio delle verifiche di cui all’art. 19 l. 241/1990 sul presupposto che gli istanti avrebbero di lì a poco presentato una variante in corso d’opera volta alla realizzazione di una tettoia completamente aperta sui quattro lati, come tale sottratta all’applicazione dell’art. 9 D.M. 1444/1968.

È altrettanto incontroverso, tuttavia, che una siffatta variante non sia mai stata presentata.

Sotto tale aspetto si profila, pertanto, il dedotto vizio motivazionale del provvedimento gravato, poggiando quest’ultimo su un presupposto del tutto insussistente. E, invero, stante l’omessa presentazione della suddetta variante, qualora la nota comunale avversata non venisse annullata, si consoliderebbero gli effetti della SCIA alternativa al permesso di costruire originariamente presentata dai controinteressati, la quale prevedeva, tuttavia, la realizzazione di un porticato coperto e totalmente chiuso su tre dei quattro lati, ossia di un’opera diversa da quella in relazione alla quale il Comune ha ritenuto di non dover esercitare i propri poteri inibitori.

  1. Sotto altro profilo, il ricorrente ha lamentato l’abusività dell’opera sul presupposto che “il risultato che deriva da un simile approccio del tecnico comunale è quello di legittimare una costruzione già in corso e sulla scorta di un progetto autorizzato differente da quanto poi oggetto di effettiva realizzazione, il che equivale a tollerare la edificazione di un manufatto difforme all’autorizzato, a fronte di una sostanziale promessa di presentazione in tempi rapidi di un progetto conforme. In vero, i Signori – OMISSIS – e – OMISSIS – avrebbero dovuto, prima dell’intrapresa dei lavori, ritirare la pratica originaria del 06/07/2022 e ripresentare un nuovo progetto conforme alla vigente normativa urbanistico – edilizia. Essendo stata per contro intrapresa l’esecuzione del manufatto prima della presentazione del nuovo titolo edilizio…l’edificazione finisce con l’avere carattere abusivo”.

9.1. Anche tale censura è suscettibile di favorevole apprezzamento.

Come è noto, la realizzazione di un intervento edilizio prima del rilascio del relativo titolo autorizzativo ne comporta irrimediabilmente l’abusività (c.d. formale).

Nel caso di specie è incontroverso che la SCIA presentata dai controinteressati riguardasse un porticato chiuso su tre dei quattro lati, mentre dalla documentazione fotografica versata in atti emerge che il manufatto in concreto realizzato risulta (quantomeno) parzialmente aperto, presentando su tre dei quattro lati dei muretti di congiunzione tra i pilastri di sostegno alla copertura, i quali giungono sino a circa metà dell’altezza esistente tra il livello del suolo e la copertura.

Ne discende che il manufatto realizzato differisce da quello in relazione al quale i controinteressati avevano intrapreso l’attività edilizia sulla base della SCIA alternativa al permesso di costruire presentata e deve, pertanto, ritenersi eseguito in assenza di un idoneo titolo abilitativo.

La mancata presentazione della variante in corso d’opera ha, infatti, in ogni caso lasciato tale manufatto privo di qualsivoglia titolo, non potendo quest’ultimo essere ravvisato nella SCIA originariamente presentata (in quanto avente ad oggetto un’opera con caratteristiche differenti).

  1. Le restanti doglianze articolate dal ricorrente, appuntandosi sulla assenza dei requisiti previsti dalla legge per l’avvio dell’attività edilizia relativa al manufatto oggetto dell’originario progetto allegato alla SCIA di cui è causa, devono ritenersi assorbite, avendo il Comune omesso di pronunciarsi in ordine all’istanza sollecitatoria presentata dal ricorrente al riguardo, in ragione della supposta “variata conformazione della nuova costruzione”.

Trattandosi di potere non ancora esercitato, infatti, deve ritenersi precluso il relativo vaglio giurisdizionale (v. art. 34, co. 2 c.p.a.).

  1. Per le ragioni sin qui esposte, il ricorso proposto avverso la nota comunale emessa in data 08/11/2022 deve essere accolto nei limiti sopra precisati e l’anzidetto provvedimento va, per l’effetto, annullato.
  2. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo in favore del ricorrente e a carico del Comune e dei controinteressati.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, in parte lo dichiara inammissibile e in parte lo accoglie nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, annulla la nota comunale prot. n. – OMISSIS – del 08/11/2022.

Condanna le parti soccombenti alla rifusione in favore del ricorrente delle spese di giudizio, liquidate in Euro 1.000,00 (mille/00) a carico del Comune di San Rocco al Porto e in Euro 1.000,00 (mille/00) a carico dei controinteressati, oltre rimborso spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge, nonché rimborso del contributo unificato.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 12 luglio 2024 con l’intervento dei magistrati:

Gabriele Nunziata, Presidente

Antonio De Vita, Consigliere

Silvia Torraca, Referendario, Estensore

 

 

L’ESTENSORE

IL PRESIDENTE

Silvia Torraca

Gabriele Nunziata

 

 

 

 

 

IL SEGRETARIO